Circa 90.000 architetti esercitano la libera professione (su 150.000), 70.000 ingegneri civili (su 540.000), 90.000 geometri (su 300.000), oltre a un numero imprecisato di periti edili e agrari.
In complesso un progettista libero professionista ogni 100 abitanti e per ogni 34 abitanti attivi possibili committenti, senza contare coloro che redigono progetti dall’interno delle pubbliche amministrazioni e delle imprese di costruzione, che è altro problema che merita un apposito articolo.
Un numero spropositato, sufficiente per progettare le trasformazioni del territorio nell’intera Europa, se è vero che gli architetti cinesi sono in tutto 34.000 (uno ogni 40.000 abitanti), quelli americani 240.000 (uno ogni 1.300 abitanti) che quelli francesi, più o meno nella media europea, sono 30.000 (uno ogni 2.200 abitanti). E in tali paesi – questione nodale – ingegneri e geometri fanno solo il proprio mestiere e non progettano architetture.
Se tale crescita insensata è frutto della «fantasia al potere» del ’68, il disordinato sovrapporsi delle competenze è risultato del disinteresse della politica nel periodo successivo. Un disordine e soprannumero, che non lasciano agli architetti italiani alcun potere contrattuale e così impediscono loro d’incidere sulla qualità del progetto e delle trasformazioni del territorio, aldilà della validità della loro formazione scolastica e capacità professionale.
Intanto 35.000 studenti d’architettura sono parcheggiati nelle facoltà e si riverseranno nei prossimi cinque anni nel mondo del lavoro, per un probabile futuro di sottoccupazione e di conflitto generazionale.
Ovviamente le iscrizioni ad architettura e ingegneria civile quest’anno sono crollate, seguendo la crisi del settore. Eppure è noto che una causa della crisi strutturale italiana è la scarsità di laureati, che sono molto al di sotto della media europea e di ingegneri gestionali o delle specialità richieste dall’industria manifatturiera, in particolare. Infatti, nei prossimi anni la sanità italiana dovrà ricorrere a molti medici stranieri, che ovviamente proverranno dai paese emergenti, com’è già per i paramedici.
Ma come si spiega la rinuncia all’iscrizione a una facoltà che è stata tradizionalmente una buona fonte di guadagno e di prestigio per la borghesia e per il ceto emergente italiano? Con la durata del ciclo di studi più lunga di altri Paesi, con la sua onerosità, con la tardiva immissione nella sanità operativa: fattori proibitivi, che dissuadono le famiglie da un investimento così cospicuo. Un investimento soprattutto dall’esito incerto, poiché conseguita la laurea, raramente sarà il merito a guidare la selezione per l’immissione all’insegnamento universitario o all’impiego nelle strutture della sanità pubblica e privata.
E così giungiamo a uno dei mali più gravi, forse incurabile, del Paese, che è il sistema clientelare e del «familismo amorale”», che ne governa la vita sociale ed economica. Una piaga che assieme alla complessità burocratica, ha cacciato l’Italia in fondo alle classifiche internazionali dell’efficienza, della trasparenza e in definitiva di quella democrazia effettiva, che è fatta non soltanto di principi costituzionali, ma della possibilità, per tutte le categorie, di far emergere e progredire socialmente e economicamente i propri figli migliori.
Ma come uscire da questo vicolo cieco?
- In generale è necessario che le libere professioni, da oggi e per il futuro, siano riservate a coloro che sono provvisti di laurea cosiddetta «magistrale», a garanzia della qualità delle prestazioni e dell’autorevolezza del professionista, che non è quest’ultima un attributo del suo decoro, ma una condizione necessaria per consentirgli d’essere utile al Paese.
- Poi ogni professione deve svolgere le attività che le sono proprie, evitando sovrapposizioni che generano incertezze e approssimazioni.
- Deve essere gradualizzata la formazione scolastica e curricolare, premiando il merito fino dalla scuola: meritocrazia non può essere solo in Italia un vuoto slogan.
- Vanno distinti gli skills a prevalente contenuto tecnico-pratico (problem solver) da quelli a prevalente fabbisogno di conoscenza e visione generale.
- Per gli ingegneri in particolare, si potrebbe riconvertirne i più giovani da edili a industriali in genere, integrando la loro formazione con i corsi necessari.
- Infine lo Stato deve consentire ai giovani meritevoli d’accedere alle scuole migliori, con borse di studio, prestiti e agevolazioni e operare una selezione sul campo già a partire dalle scuole secondarie, ancora una volta in base al merito e non ricorrendo a “numeri chiusi”, che sono sistematicamente smentiti dalla realtà, com’è dimostrato per i medici e che rischiano, una volta di più, di privilegiare i candidati appoggiati e introdotti, a scapito dei migliori.