Si è tenuto dal 3 al 5 novembre scorso, a Londra, l’incontro «The Year in Infrastructure 2015» promosso dalla software house Bentley.
La manifestazione, giunta alla sua XX edizione, ha permesso ai partecipanti provenienti dai diversi angoli del pianeta di confrontarsi sulle tematiche più sentite nel campo delle discipline tecniche, dall’architettura alle strutture, dagli impianti alle infrastrutture, dal rilievo all’asset management. L’evento rappresenta un vero e proprio terreno di confronto tra chi crea la tecnologia e chi la usa, in cui questi ultimi spingono i primi a colmare esigenze attuali e desideri futuri.
Parte integrante dell’evento è stata la presentazione dei progetti finalisti del concorso legato alla manifestazione. Gli stessi progettisti hanno partecipato all’evento per spiegare direttamente le strategie adoperate e le risorse messe in campo. A sottolineare l’importanza strategica degli usi a cui un modello tridimensionale può essere chiamato a svolgere, sono state diciotto le categorie individuate dalla giuria: building, asset performance management, bridge, construction, government, land development, megaprojects, mining offshore, power generation process manufactoring, project delivery, rail and transit, road, structures, utilities and communications, water netwark analisys, water treatment plants.
IL PARERE DI ALFREDO SARTORATO, DIRECTOR GLOBAL ACCOUNTS BENTLEY
Ing. Sartorato, ci racconta la visione Bentley di questa manifestazione?
Questa manifestazione è la più importante che organizziamo ogni anno e la più significativa in assoluto. È l’occasione in cui i nostri clienti più importanti al mondo vengono in un consesso internazionale per dimostrare quello che sono stati in grado di realizzare, progettare, costruire e gestire utilizzando le tecnologie Bentley. Un modo importante per loro per mostrare cosa si può ottenere utilizzando le nostre tecnologie e altrettanto importante per noi per dare l’idea di dove siamo, dove stiamo andando e, soprattutto, dove vogliamo andare.
La tecnologia avanza rapidamente. Quali sono le nuove frontiere che Bentley si propone di superare?
Le frontiere sono molte, importanti e significative. Non è un caso che all’interno di Bentley esista un gruppo di ricerca dedicato all’implementazione delle tecnologie software. È un gruppo nel quale abbiamo iniziato a investire alcuni anni fa presso la nostra sede centrale, a Exton in Pennsylvania. Di sicuro, gli ambiti sono quelli che permetteranno di avere nuovi strumenti in grado di andare sempre di più verso sistemi virtuali di alta capacità, nell’ambito di quella che è meglio nota come augmented reality.
Avrà sempre maggiore importanza nelle nostre applicazioni e non è un caso che è proprio in quest’ambito che sono state fatte le acquisizioni più recenti che abbiamo riportato su Contex Capture, una piattaforma per la digitalizzazione di infrastrutture in genere partendo da fotografie. Una tecnologia nuova e particolarmente innovativa che ha permesso di realizzare nel giro di pochi giorni, come mostrato da Greg Bentley in persona, il modello virtuale della città di Philadelphia per pianificare al meglio e con delle logiche tridimensionali la presenza del Papa, un evento di dimensioni colossali per Philadelphia.
Quali sono i progetti di sviluppo per Bentley in Italia?
Non posso fare nomi, ma stiamo lavorando con alcune realtà importanti per far passare messaggi profondi. È tutto il Paese che, però, si deve muovere, soprattutto dal punto di vista legislativo perché, proprio come visto in questo consesso, è emerso per la prima volta il concetto di Total Expenditure (Totex). Si è sempre parlato di Capital Expenditure (Capex) e di Operating Expenditure (Opex), finalmente si arriva al concetto di total expenditure per quanto riguarda un’infrastruttura.
È necessario uscire dalla drammatica logica di ridurre Capex e Opex al minimo per vedere di ottimizzare i costi totali di un’infrastruttura. Non lavorare al massimo risparmio per costruirla per poi accorgersi dopo pochi mesi che magari va già a pezzi, ma integrare tutta la parte di Operation and Manteinace (O&M) la cui stima deve essere di decenni, se non secoli. È proprio la parte O&M la parte più importante e significativa dove utilizzare logiche di modellazione virtuale da mantenere a fianco del costruito. Purtroppo non si sono registrati progetti o progettisti italiani finalisti. Questo non deve scoraggiare i nostri tecnici perché molto spesso la scala dimensionale di intervento nel nostro Paese non è neanche lontanamente comparabile con quella di Paesi in cui vi è una crescita maggiore e dove vi è la necessità di un sistema di infrastrutture di base, ma deve essere lo stimolo affinché cresca la considerazione che le capacità e le competenze acquisite possono e devono essere messe in rete in un sistema che vada oltre i confini geografici che troppo spesso ci frenano e che le tecnologie recenti hanno abbattuto già da anni.
IL PARERE DI STEFANO DELLA TORRE , GIURATO PER IL THE YEAR IN INFRASTRUCTURE 2015
L’Italia ha avuto una finestra privilegiata di osservazione. La manifestazione ha visto, infatti, la presenza in giuria del prof. Stefano della Torre al quale abbiamo chiesto, avendo egli esaminato approfonditamente i progetti e le tecnologie adoperate, quali fossero stati i parametri di valutazione, quali le innovazioni emerse dai progetti esaminati e le tecnologie che lo hanno colpito maggiormente.
Professore Della Torre, la sua presenza in giuria ci permette di avere un punto di vista privilegiato su questo evento. Ci racconta questa esperienza di giurato internazionale, la sua visione di questa manifestazione?
Premetto che ho fatto parte della giuria su tre categorie mentre le categorie erano molte di più. Sono rimasto assolutamente impressionato dalla quantità e dalla varietà dei progetti presentati, molti dei quali complessi e rappresentativi di realizzazioni che sarebbero fuori dall’ordinario in Italia. In questa varietà il numero delle categorie e i criteri specifici per categoria aiutano molto ad avere un giudizio che tiene fede a quelle che sono le finalità del premio. Il premio punta sull’innovazione nell’uso degli strumenti, innovazione che dovrebbe permettere di raggiungere la qualità del progetto, che dovrebbe raggiungere la qualità del processo esecutivo, le economie. Chi ha studiato il premio ha fornito ai giudici un set di criteri che io ho trovato molto adeguato per far emergere queste caratteristiche dei progetti.
Ci può fare degli esempi di questi parametri?
In particolare, sui progetti di costruzione, avevamo una lunga lista di possibili vantaggi che si ottenevano dall’uso dei software, del dialogo tra i diversi soggetti della filiera o nella previsione delle criticità.
Quindi non solo l’aspetto tecnologico, ma anche quello strategico.
Assolutamente si, perché un criterio era quello di poter dimostrare i vantaggi ottenuti in termini di tempi e costi.
Nel presentare i progetti tutti dovevano aver già compilato un format su questi aspetti. È risultato, quindi, abbastanza facile capire anche la consapevolezza con la quale le diverse piattaforme erano state adoperate. Era significativo premiare chi, usando specifici, strumenti aveva dato una spinta in avanti e uno stimolo allo sviluppo ulteriore degli stessi.
Al termine di questo lungo confronto sui progetti e tra rappresentanti di rilievo delle più svariate nazionalità, come valuta la situazione italiana?
È interessante sentire dai giurati e dai rappresentanti di altri Paesi che anche loro si lamentano. Questa, però, è una costante delle comunità nazionali che cerca di usare queste esperienze extraterritoriali per sollecitare un’ulteriore spinta interna. Più ancora del livello delle realizzazioni, credo che siano impressionanti le cose che raccontano su ciò che bolle in pentola nella ricerca. Dal punto di vista nazionale, le prime realizzazioni cominciano a evidenziare che esiste il rischio di sviluppare in Italia un primo livello di applicazione che non va nella direzione dei livelli successivi. Su questo credo che dovremmo fare molta attenzione e cercare di imparare in fretta dagli altri tutte le lezioni, guardando l’ultima e non ripercorrendo quello che gli altri hanno fatto in quindici anni pensando di dover rifare lo stesso percorso.
L’adozione di queste tecnologie/metodologie aiuterà tutto o solo una fetta del mercato italiano?
Io credo che cambierà tutto, ma la tecnologia funziona solo se cambi il modo di rapportarti con gli altri soggetti e quindi aiuterà tutti quelli che saranno capaci di ripensarsi. Sono abbastanza grande per aver vissuto il passaggio dal rapidograph ai sistemi Cad e per esser stato uno di quelli che vedevano certi rischi; quando sono arrivati i primi rilievi Cad dicevo: «questo rilievo è sbagliato qui, qui e qui». Il problema era cercare di usare certe potenzialità dello strumento andando a perdere certe qualità.
Ovviamente il difetto non era lo strumento, ma il modo in cui lo strumento veniva usato. Sono anche abbastanza esperto per aver visto disegni delle prime versioni di software Cad diventare rapidamente obsoleti, perché lo strumento veniva utilizzato per fare le cose vecchie e non per le nuove potenzialità. Questo è il rischio che corriamo anche con il Bim e tutto il processo di digitalizzazione, usare strumenti nuovi per fare cose vecchie. Se facciamo questo perdiamo tutti perché usiamo strumenti più costosi per fare le cose consuete, senza sfruttarne le nuove potenzialità.
di Vittorio Mottola