I media pubblicano che quei furbi degli italiani hanno pochi laureati, rispetto alla media europea e in particolare pochi ingegneri, che recenti statistiche pur censiscono in più di 500mila, dei quali il 70% sono dipendenti e fanno capire che i datori di lavoro non vogliono pagare un ingegnere e preferiscono un diplomato, che costa meno.
Le statistiche dicono che si laurea solo 1 italiano su 4, quando in Europa la media è del 38,7%, ma che abbondano i laureati in materie umanistiche, commercialisti, psicologi. Di diplomati, l’Italia ne conta invece 16,6 milioni ed è davanti a Germania, Francia e Regno Unito, ma è sempre sotto la media Ue (Dati AGI). Così, secondo il quotidiano online La tecnica della scuola, mancano già ora 272mila tecnici diplomati o laureati.
Diversi i conti, se estraiamo dal mucchio gli architetti, che però non sappiamo se ascrivere ai tecnici, agli artisti o agli umanisti: dei 565mila attivi in Europa, ben il 27% è nel nostro Paese (153mila iscritti agli albi), mentre la Germania ne ha 107.200, la Spagna 51.700, il Regno Unito 34.300, la Francia 29.800.
La più alta densità è così in Italia (2,5 per mille abitanti), mentre la media di tutta Europa è di 1 x mille abitanti. A questo già enorme problema, s’aggiunge che l’Italia è l’unico Paese dove anche altre due professioni, gli ingegneri civili e i geometri, progettano architetture. Il Centro studi del Cni, rileva che il 90% dei 200mila iscritti della sezione A, appartiene al settore civile e ambientale; quindi le due professioni pesano sicuramente molto, sul fatturato globale delle prestazioni d’architettura.
Allora il dato comparabile con la situazione internazionale è che in Italia vi sono oltre 250mila architetti e ingegneri e 100mila geometri, 350mila professionisti che s’occupano delle trasformazioni del territorio: più di uno ogni 170 abitanti. In nessun paese al mondo vi è una simile densità di progettisti (Francia 1/3.500 abitanti, Cina 1/40mila). Così la risposta empirica al quesito iniziale è che il soprannumero in Italia è rappresentato dai troppi soggetti, di tutte e tre le professioni, che s’occupano a vario titolo del progetto d’architettura. Scarseggiano contemporaneamente gli ingegneri (e i diplomati tecnici) specializzati in altri rami dell’industria, energia, trasporti.
Quindi si tratta di un colossale errore di programmazione, che costa molto caro a tutto il Paese e agli architetti in particolare. S’aggiunga che la legge italiana dispone che le opere pubbliche devono essere prioritariamente svolte dagli uffici interni alle amministrazioni e ciò dà luogo ad una concorrenza sleale (non comporta l’assunzione in proprio dei costi e dei rischi della libera professione) che è di fatto distruttiva per gli studi professionali, poiché il settore pubblico non costituisce più il volano che consentiva agli studi di formarsi un curriculum e di strutturarsi, per competere in Italia e all’estero; si svolge spesso in conflitto d’interessi con i doveri e i poteri dell’ufficio, con i relativi riflessi in materia di trasparenza e d’incentivo alla corruzione.
Ciò ha provocato che la miriade di piccoli e piccolissimi studi marginali sopravvissuti, non possono singolarmente sostenere strutture organizzative e vedono il reddito medio del singolo architetto, ridotto a meno di 13mila euro/annui (dati Inarcassa).
La situazione italiana è anomala rispetto ai Paesi simili e vicini, ma se si tratta di un’anomalia significa che può essere ripristinata l’ordinarietà: in primis agendo con la formazione, convertendo ingegneri e geometri verso settori dell’industria e dei servizi dove ce n’è carenza, un fenomeno che è già in atto e dovrebbe essere incentivato, poi riducendo, per almeno vent’anni, il numero dei laureati in architettura e ingegneria civile.
Gli architetti dovranno anche proporre un triplice patto, una moratoria, tra colleghi liberi, colleghi dipendenti e pa, affinché almeno per un periodo di 5–10 anni, coloro che hanno la fortuna d’avere uno stipendio fisso superiore a 20mila euro/annui, rinuncino al doppio lavoro e così da parte sua, la pa dovrebbe accettare di non attribuire più gli incarichi in house.
Questo patto – che potrebbe essere bilanciato dall’impegno dei liberi professionisti a sostenere un progetto di riordino delle retribuzioni pubbliche e a mantenere comportamenti di lealtà fiscale, garantiti dagli Ordini – costituirebbe il rilancio di un diffuso senso d’appartenenza, solidarietà e responsabilità intergenerazionale; consentirebbe ai funzionari di far meglio il proprio lavoro di Rup, d’insegnante, di tecnico comunale e ai cittadini di ricevere servizi più attenti e tempestivi.
Gli architetti dovranno poi chiedere al nuovo governo una strategia di lungo periodo, per la messa in sicurezza dei territori e delle città. Un grande progetto d’incentivi e finanziamenti, anche con il concorso dell’Ue, per il rilancio di periferie e centri storici, per il recupero delle aree produttive dismesse. Potrebbe essere l’inizio dell’uscita dalla palude nella quale langue la professione.
Bruno Gabbiani, Ala Assoarchitetti